“Dai Troubles nell’Irlanda del Nord alla nuova vita in Italia. La mia storia tra i fuochi dell’IRA e il carcere.” Il sottotitolo della sua autobiografia “A Belfast Boy” la introduce alla perfezione: la vita del giornalista nord irlandese da anni residente a Bologna. Micheal Phillips ci racconta dunque cos’abbia significato nascere, crescere e vivere in una zona di guerra nel cuore d’Europa.

Prima di farti domande riguardanti la tua storia o la trama del tuo libro, vorrei chiederti una cosa che mi è passata per la mente leggendo l’introduzione “Corriere della sera 23 Novembre 2017” in cui racconti dell’intervista che ti è stata fatta in seguito al tuo arresto:
Hai sfruttato l’occasione del libro per “sistemare” il disastro causato da quell’articolo pubblicato dal Corriere (che ti indicava come un terrorista), un po’ più dunque per un riscatto personale, o ti sembrava importante semplicemente per il lettore e lo sviluppo del libro in sé?
Di disastri, effettivamente, ce ne sono stati tre!
Immagino comunque sia stato un po’ per entrambe le cose. È normale: quando si traduce/si interpreta un’altra lingua è possibile che dettagli importanti vengano fraintesi o vadano persi nella traduzione; per questo ho pensato che valesse la pena spiegare il “primo” disastro riguardo a mia madre, che non volevo offendere in alcun modo. Il “secondo” disastro è stato pubblicare l’articolo senza informare prima la mia famiglia. So che non avrebbero voluto che lo pubblicassi, quindi in realtà non c’era nulla che potessi fare a riguardo. “Terzo” disastro, appunto: il titolo online dell’articolo (che mi indicava come un terrorista) è stato altrettanto terribile per me da leggere al mio risveglio, e mi sono assicurato che venisse corretto immediatamente.
Mi piacciono le due espressioni che usi all’interno del libro: “Cominciare la seconda parte della mia vita” e “Cambiare marcia”. Sono obiettivi che sei riuscito a raggiungere grazie al trasferimento a Bologna, o Bologna è solo un tassello? Quando è stato il momento in cui hai deciso – e in cui di conseguenza hai capito che sei capace – di ricominciare?
Rendersi conto che c’è un problema nella tua vita che ti impedisce di andare avanti è un processo complicato, soprattutto se nessun altro vicino a te può comprendere esattamente di cosa si tratta o come aiutarti. A questo proposito, la mia soluzione ha preso forma in un periodo durato molti anni. Però sì: forse il trasferimento a Bologna è stato il vero inizio di quel processo.
Come spiego all’inizio del libro, una mia ex ragazza mi ha aiutato a condurre una vita regolare per alcuni anni – nella mia mente – convincendomi a stabilirmi qui. Avevo viaggiato per anni fino a quel momento, e l’idea di “risiedere” da qualche parte era per me incredibilmente strana e scomoda. In quel momento ho pensato che forse si trattava del mio primo passo concreto per iniziare a lasciarmi alle spalle il mio passato, anche se avevo ancora molta strada da fare anche in seguito.
La domanda, quindi, viene da sé: quando hai deciso di cominciare a scrivere “A Belfast boy”?
Avevo parlato dell’idea di scrivere il libro con un mio caro amico e, dal momento che mi vedeva molto riluttante a farlo, mi ha suggerito di proporre l’articolo su un giornale per rompere il ghiaccio. C’è stato un secondo momento significativo, circa un anno dopo, mentre mi trovavo a casa. Un programma televisivo ha mostrato un mio ex compagno di prigione mentre parlava della sua esperienza nell’IRA. Questa è stata la prova definitiva che potevo pubblicare la mia storia. Ma tutta la mia storia, al completo, non l’ho ancora raccontata. Potrebbero esserci ancora delle conseguenze, per questo devo assicurarmi di poter pubblicare il resto.
E nonostante tutto, ti senti ancora un Belfast boy o è qualcosa che ti sei lasciato alle spalle?
Assolutamente sì! C’è ancora una parte di me che è curiosa e avventurosa. Amo la vita, anche nei suoi risvolti più terribili, perché non tutti i giorni possono essere meravigliosi. Certamente, sento la mancanza di molti aspetti del crescere a Belfast in quel periodo, perché è stato liberatorio. C’erano pochissime regole allora, mentre oggi puoi essere multato per qualsiasi motivo e le autorità hanno molto più tempo per controllare quello che fanno le persone.
Parlando dei Troubles, hai scritto: “Avevo la parola “vendetta” sulla punta della lingua ma era troppo complicato anche solo pensare che vendicare mio fratello fosse una risposta plausibile.” Pensi che se vi foste vendicati, il secondo episodio (l’uccisione del marito di tua cugina) sarebbe accaduto lo stesso? O l’avreste potuto evitare?
Sfortunatamente, il marito di mia cugina è stato assassinato per quello che allora veniva chiamato “collaborare con il nemico”. Non avevo idea del suo trascorso personale allora, e lo conoscevo solo come camionista. Qualunque cosa avesse fatto o stesse facendo, era per me un mistero completo in quel momento.
L’idea di vendetta suona sempre bene in teoria, ma ci vuole uno sforzo e una pazienza reali per capire che raramente funziona, per quanto pianificata. Anche dopo il tentato omicidio di mio fratello, mi sono subito reso conto che qualsiasi odio personale che provavo contro i lealisti era inutile e irrilevante. Eravamo tutti coinvolti in una guerra sporca, i cui responsabili erano il governo britannico e i partiti unionisti.
Pensi che la tua famiglia abbia gestito bene la faccenda dei Troubles, non parlandone? O avresti preferito saperne di più anche da ragazzino?
Ogni genitore cerca di proteggere il proprio figlio dalle brutte esperienze, quindi non posso biasimare mia madre per questo. Alcuni dei miei amici avevano maggiore libertà di parlare dei Troubles con le proprie famiglie, altri no. Ma alla fine sono stato l’unico dei miei amici a casa, a scuola e con cui facevo sport, ad essere stato arrestato. Quindi, in questo senso, credo che avrebbe fatto davvero poca differenza se avessimo discusso di quello che stava succedendo nel Nord.
Arrivando invece al Clou: Sei stato dichiarato in arresto secondo la legge sulla prevenzione del terrorismo. Ce ne vuoi parlare?
Sì, sono stato arrestato con l’accusa di istigazione ad atti di terrorismo e possesso di esplosivi con l’intento di provocare esplosioni… o qualcosa del genere. In quel preciso momento, stavo uscendo dal lavoro per tornare a casa presto. Facevo il turno di notte e qualche volta consentivano di tornare a casa un’ora o due prima. Quella sera in particolare eravamo molto impegnati e per questo mi sono meravigliato quando mi hanno chiamato in ufficio per chiedermi se volessi tornare a casa. Ad ogni modo, mentre stavo uscendo di soppiatto, sono tornato di corsa al mio armadietto per prendere un pezzo di tappeto arrotolato. Era un pezzo in più da buttare via dopo averne installata una parte sull’aereo, e ho pensato di prendere l’avanzo per la mia macchina. Col senno di poi, la polizia sotto copertura che mi osservava in quel momento avrebbe potuto facilmente pensare che stessi portando pistole o esplosivi (almeno nella loro mente) e se avessi agito diversamente avrebbero potuto spararmi proprio come hanno ucciso Diarmuid, senza alcuna provocazione.
Qual è stata la tua paura, una volta scarcerato?
Essere di nuovo incarcerato o assassinato, senza dubbio.
E quale fu la prima cosa che non vedevi l’ora di riavere nella tua vita?
Viaggiare. Sembra stupido, ma mentre ero in carcere ho letto parecchi libri su luoghi stranieri, il che non è certo una buona idea quando rischi di dovere rimanere in prigione per molto tempo. Ho anche studiato spagnolo per essere pronto ad uscire: ancora una volta, una scelta totalmente stupida o estremamente lungimirante!
Quando sei stato trasferito nel carcere di massima sicurezza in Canada, invece, la sensazione fu la stessa del primo arresto?
Non proprio. Era molto peggio perché, in primo luogo, non era casa mia. I detenuti possono facilmente “perdersi nel sistema”. L’ho capito sin da subito perché non avevo un avvocato, non potevo telefonare a nessuno né chiamare nessuno poiché non avevo con me i numeri di contatto. Peggio ancora, il cibo non assomigliava a niente che avessi mai visto o assaggiato in vita mia. Gli animali nelle fattorie venivano nutriti meglio. È stato spaventoso, ma fortunatamente di breve durata.
Pensi che, nonostante tutto, il tuo periodo in carcere ti abbia “aiutato” a diventare una persona nuova?
Che lo volessi o no, una parte di me è decisamente cambiata. Il carcere generalmente non aiuta le persone a rimettersi sulla retta via e a diventare persone migliori. Non parlo solo per ciò che mi riguarda personalmente, ma anche per aver visto cosa succede agli altri. Le persone normali pensano che il carcere sia per persone “cattive” e dunque che è giusto che chiunque si trovi in carcere debba soffrire. Ma se una persona “cattiva” va in prigione e non viene istruita o non viene aiutata a cambiare attraverso un certo tipo di sistema sociale, come pensiamo che ne esca? Molto spesso le persone cattive escono dal carcere peggiori di prima, perché sentono che la società non si preoccupa affatto di loro e non hanno quindi nulla da aspettarsi.
Uscire di prigione può anche corrispondere a rimanere intrappolati in un altro tipo di prigione, anche se a cielo aperto, ed è estremamente difficile tornare alla normalità. È molto importante avere una comunità forte intorno a te che ti aiuti in questo processo.
Infine: Raccontare la propria storia pubblicamente è un grande passo. Suppongo possa aiutare molto a lasciarsi il passato alle spalle, ma che porti anche a riviverlo. Una volta finita la stesura del libro, ti ha lasciato più sensazioni positive o negative?
Conoscendomi, se mi avesse lasciato sensazioni più negative, forse avrei addirittura bruciato il manoscritto! Sicuramente, scrivere la propria storia è come viverla di nuovo e suppongo che questa sia la parte utile per cominciare a lasciarsi tutto alle spalle. Tuttavia, come dicevo all’inizio dell’intervista, il processo di lasciare il passato alle spalle è lento e complicato e mostra aspetti sia positivi che negativi. Anche l’atto fisico dello scrivere è stato catartico e mi ha fatto imparare di più su me stesso. Mi ha dimostrato che sono in grado di spiegare agli altri, lo spero, che non importa quali problemi passati abbiamo, perché c’è sicuramente dei modi per superarli. La cosa più importante è non arrendersi e ascoltare gli altri se offrono aiuto. Non tutti i consigli sono buoni, ma a volte un minuscolo cambiamento positivo può portare a un cambiamento positivo più grande.
“A Belfast Boy” ci insegna sicuramente questo: si può andare avanti, si può cambiare – se lo si vuole – e a volte basta pochissimo!
