
Vansky, l’autore misterioso, si definisce un “tenace, testardo e inguaribile sognatore”. Ho avuto il piacere di intervistarlo per il suo primo romanzo, il quale ci racconta di un viaggio on the road, ma anche, e soprattutto, di un viaggio spirituale.
Vansky ci parla di sogni ma anche di delusioni, di conquiste ma anche di fallimenti e ci insegna a rincorrere ciò che ci ha dato la forza di rialzarci. Perché i sogni, non solo quelli grandi, sono ovunque, in qualunque cosa facciamo.
Caro Vansky, l’introduzione al suo romanzo ci racconta la storia di un piccolo elefante col sogno di volare. Il mio primo pensiero è andato al cartone animato Dumbo e mi si è immediatamente alleggerito e ringiovanito il cuore!
L’intento era effettivamente quello di riportarci nel mondo fiabesco o si è ispirato ad altro per questo breve racconto iniziale? Da dove deriva l’idea?
L’idea della favola iniziale è legata al tema centrale del romanzo: la conquista dei propri sogni. L’infanzia è l’età in cui tutto è possibile, i bambini riescono a credere ciecamente di essere un supereroe, di avere poteri magici o di poter diventare una principessa. É l’età della vita in cui ogni cosa è possibile, dove non esistono limiti nel mondo dell’immaginario e della realtà. Per cui ho trovato conciliante iniziare il mio romanzo con una favola; quella di un elefante che aveva bisogno come tutti noi adulti di riappropriassi del cucciolo che era stato, che aveva smarrito crescendo e del suo sogno di volare. Era un’introduzione perfetta per riportarci all’infanzia, e a tutto ciò che sogniamo ad occhi aperti senza porci limiti.
Una frase nell’introduzione che mi ha colpito molto è stata: “I sogni vanno coltivati con la stessa cura con la quale assecondiamo i nostri bisogni.” È un pensiero che lei è sempre riuscito a (in)seguire o è una consapevolezza che ha raggiunto con gli anni?
É stata una riscoperta anche per me. Gli adulti, e tra questi anch’io, col passare degli anni perdono sempre più l’entusiasmo per la vita e per i nuovi progetti, assorbiti dalla routine quotidiana che lentamente ci stritola tra i propri ingranaggi. Eppure per ognuno di noi c’è stato un tempo, spesso legato all’infanzia e all’adolescenza, in cui avevamo dei sogni grandi, inarrivabili, ma che ci davano la spinta, l’energia e la voglia di realizzarli. Come dicevo, con gli anni un po’ si perde e ci trasformiamo in degli automi, ripentendo gesti, usi all’infinito in giorni che sembrano uno la fotocopia dell’altro, privi di quell’entusiasmo dato dai nuovi progetti e dai grandi sogni. Perciò è necessario tornare a sognare.
E avere un sogno, quindi, non è anche una sorta di bisogno?
C’è un aforisma che recita: “Nessuno è felice senza avere un’illusione. Le illusioni sono necessarie alla nostra felicità quanto le cose reali.” Senza il mondo dell’immaginario saremmo esseri più tristi e poveri. Nella nostra quotidianità facciamo sogni semplici, spesso senza rendercene conto. Nel libro stesso ci sono dei riferimenti a piccoli sogni che coltiviamo a occhi aperti. Ritengo che sì, sia un bisogno intrinseco dato dal pensiero, più o meno sviluppato, in ogni essere umano.
Il primo sogno che è riuscito a coltivare (e a far fiorire) è stato il suo romanzo o ci sono altri sogni dei quali vuole parlarci?
Quando parlo di sogni non mi riferisco solo ai grandi sogni, ma anche ai sogni minori che realizziamo normalmente nella nostra vita. In un momento storico in qui tutto è precario, ad esempio trovare un lavoro stabile è un sogno per molti, che va ricercato e sudato.
Personalmente ne ho realizzati molti altri, anche se la lista è lunga. Ho raggiunto il sogno di una laurea, di avere una mia casa, di vivere nella città più bella del mondo che per me rimane Roma. E tra questi devo aggiungere i sogni legati ai miei affetti personali.
Ci parli invece del titolo del romanzo “N.S.O.E”: è abbastanza insolito usare un acronimo come titolo di un libro. La scelta è data dal desiderio di mantenere un velo di mistero (come d’altronde ha fatto con la sua persona) o c’è dell’altro?
Sì in effetti è abbastanza insolito usare un acronimo, ma sono un autore un po’ folle, in senso positivo e quindi mi sono sentito autorizzato di poterlo fare. Mi piace giocare e spiazzare con le parole. Sicuramente un titolo del genere suscita mistero e interesse nel chiedersi il significato. Il titolo poi viene spiegato chiaramente nel corso del romanzo, mantiene comunque due significati, uno dei quali è il sottotitolo del libro Noi Scoveremo Orizzonti E Nuovi Sogni Ostinatamente Ebbri. Il secondo significato lo può scoprire il lettore leggendo il libro, è sempre legato alla difficoltà di ricercare e di realizzare i propri sogni.
Il titolo è nato prima di scrivere la storia o è stata più una ricerca avvenuta dopo la stesura del romanzo?
Il titolo iniziale dove essere “Nord, Sud, Ovest, Est”. Ho deciso di cambiarlo per rendere il tutto più appetitoso agli occhi del lettore, spinto anche dal doppio significato come spiegato prima. Il titolo era legato alla storia del viaggio sia fisico dei personaggi, sia interiore dei sette protagonisti, affannati nella ricerca di una propria meta, di un proprio destino.
I 7 protagonisti fanno simbolicamente riferimento a qualcosa o qualcuno in particolare? A cosa si è ispirato per l’ideazione dei personaggi?
I personaggi sono tutti frutto di immaginazione anche se in ognuno di loro c’è qualcosa di me. Ho ricreato degli stereotipi ben definiti: la ragazza avvenente, il ricco newyorkese, la schematica astrofisica, la casalinga, il manovale, l’artista. Mi sono ispirato alla realtà, cercando di associare ad ognuno di loro, un sogno più o meno straordinario ma che potesse racchiudere un po’ i sogni di tutti noi, dal sogno di avere una propria famiglia al sogno di essere riconosciuto a livello mondiale come artista.
Come mai ha deciso di ambientare il viaggio proprio da New York a Los Angeles? C’è qualcosa che la lega a questi luoghi?
Ho visitato molti dei luoghi descritti nel libro e le confermo che sono tutti posti reali, dalle città più conosciute alle città sperdute quali Crystal e Rhyolite. Personalmente ho una grande passione per i viaggi, specialmente per i viaggi on the road in cui si vive la quotidianità, in cui si coprono mete e luoghi inattesi. E poi di fondo c’è un’idea di libertà dalla routine, c’è del selvaggio, della scoperta sia di posti sconosciuti, sia di persone e situazioni lontane dal nostro modo di vivere.
Mi legano i ricordi dei posti che ho visto, e che ho cercato di raccontare nel libro, mettendoci qualcosa di personale in ogni meta del viaggio. In particolare il Gran Canyon è un luogo davvero incantevole, che pur occupando un’ampia descrizione nel libro, rimane difficile da tradurre in parole.
A questo proposito: mi è piaciuto molto il fatto che abbia dato così tanto spazio ad ogni personaggio di dare un’interpretazione propria al Gran Canyon. (Personalmente la mia preferita è stata quella di Amber). Ci racconti, qual è stata l’emozione esatta che ha provato lei personalmente?
In realtà il fatto che io abbia visto il Gran Canyon di persona ha fatto scaturire i sette punti di vista dei personaggi. Ho un modo di scrivere molto interiore e mi piaceva l’idea di descrivere qualcosa di così magnificente attraverso occhi diversi, filtrando l’essenza di ogni personaggio. Ne emerge un ritratto condizionato dal bagaglio di ogni protagonista rapportato a ciò che è. L’emozione di Amber è la più forte, la più empatica, forse la più impattante. Il Gran Canyon va semplicemente visto, le parole, le foto, le descrizioni, i video non rendono la sublime bellezza delle sue gole profonde, del colore rosso mitigato in alcuni punti, del cielo e le nuvole che di sopra corrono via velocemente. Ecco un po’ come Amber, nei limiti di ciò che ci è concesso dovremmo sempre trovare un po’ di questa bellezza nella nostra vita, e sono certo che saremo sicuramente più sereni.
Come mai ha deciso di non far presentare il Pastore come accompagnatore di questo viaggio, ma di farlo rimanere invece una presenza “astratta”?
Su questo non posso dare una risposta chiara, in quanto è punto chiave del libro. Il Pastore ha un suo progetto da realizzare, una sorta di segno da lasciare in questo mondo, in modo da dare un senso alla sua vita. È il personaggio che più di tutti ha bisogno di trovare la risposta alla sua insaziabile voglia di vivere.
Personalmente ha avuto una guida o un “Pastore” che l’ha accompagnata nel suo viaggio della vita?
Ho avuto persone importanti che mi hanno accompagnato e che mi accompagnano. Sono gli affetti più stretti, che non mancano mai di far sentire la loro presenza e il loro sostegno. Non riesco ad individuare una figura precisa, sicuramente in base al momento che stavo vivendo ho ricevuto i giusti consigli e il supporto necessario. E di questo sono davvero grato.
Cambiando personaggio: nel capitolo “Salt Lake City” c’è una scena toccante in cui Kiki scoppia in questo pianto incontrollato, perdendo fede e speranza nel trovare felicità. Lei Vansky, ha mai avuto un momento in cui ha pensato di non riuscire a realizzare il proprio sogno? Cosa l’ha aiutata a continuare a provarci?
In realtà la paura di non realizzare questo sogno è sempre presente. Ho grandi aspettative e perciò se non realizzate si trasformano in grandi delusioni. Il dolore che prova Kiki è un dolore che affigge i grandi sognatori, che hanno un mondo da riversare all’esterno ma spesso non vengono compresi, e il rifiuto del mondo si trasforma in una vera tragedia per loro e per la grande sensibilità che racchiudono in sé.
Continuo a credere in questo sogno perché ci ho lavorato tanto, perché ho faticato, perché so il prezzo che ho pagato per scrivere questo libro. Sono tenace e testardo e un inguaribile sognatore. E poi se mi permette il libro fortunatamente sta ricevendo un buon riscontro di pubblico.
Infine, il romanzo ha una specie di struttura circolare che mi ha colpito molto: nell’epilogo viene ripresa la storiella dell’elefante raccontata da Kiki. Ci si identifica molto in quest’ultimo?
Durante la lettura pensavo che lei, autore, fosse più il pastore che guida noi lettori attraverso il viaggio del romanzo, alla fine però mi è sorto il dubbio che Kiki sia descritto in modo quasi autobiografico.
Kiki è il personaggio che mi assomiglia di più, tra tutti. Ha il sogno di comprendere se ha talento oppure no, dopo averlo inseguito in lungo e largo per il mondo. Vive per l’arte e non può fare a meno di seguire questo suo destino. Conosce benissimo le rinunce fatte, a più livelli, per inseguire il suo sogno, il prezzo pagato per realizzare ciò che lui ha nel cuore, ciò per cui è nato. Cerca tra le varie tappe di comprendere se realmente possiede il dono di essere un artista, e vive varie fasi, momenti in cui si sente un pittore incompreso, altre in cui pensa di non poter dipingere più, altre in cui non può smettere di usare i pennelli e di esternarne al mondo ciò che lui ha dentro.
Esiste perciò un nesso tra Kiki il pittore dai grandi fallimenti e dal grande sogno di far conoscere la sua arte al mondo e l’autore e la sua incredibile voglia di divulgare il suo libro a più lettori possibili.
Non ci resta che sognare, quotidianamente ed ininterrottamente. Non ci resta che sperare e credere e viaggiare. Grazie Vansky, per averci permesso di sognare i nostri sogni attraverso il tuo.

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